La Natura e il Piccolo Uomo - Testo di Cinzia Mattei


"È il giallo, la prima cosa che vedo. Il giallo che si appiccica anche alla mia linea abbozzata e ancora fluida, lavorabile. Fragile, tanto che mi si potrebbe cancellare con un gesto. La seconda cosa che mi arriva è un pensiero buffo: come faccio a vederlo, se non ho nemmeno gli occhi? Non li ho perché, in effetti, non ti sei premurato di farmeli. Tu, Uomo. Posso vedere anche te, sfocato, ancora intento a creare il mio mondo, gocciando i fiori ad uno ad uno con un rosso carico che potrei prendere per sangue se non sapessi che non è abbastanza scuro. Ecco, anche questo. Come faccio a saperlo? Sì, dico a te. A te che impazzisci da ore su petali e fili d’erba e a me hai dedicato solo un gesto, quasi per sbaglio. No, per sbaglio no. Ma solo perché la casa alle mie spalle non puoi averla composta in un secondo e voglio pensare che l’hai dipinta per me. Devi averlo fatto. I fiori non hanno bisogno di case e non vedo altri uomini qui. A parte te, ovvio. Ah, giusto. Tu non sei “qui”. Chi sa come lo chiamate, quel posto da cui muovi le tue mani delineando dal nulla confini, cieli, orizzonti. Quel mondo che non posso toccare ma da cui mi hai fatto cadere, disperdendomi in questa distesa bruciata da un Sole di cui non puoi sentire il calore. Ma io sì. Come posso, se nemmeno ho una vera pelle? O forse è il tuo Sole, che mi secca impedendomi di sciogliermi come la macchia informe che sono. Che mi inchioda qui, proprio qui in questo punto preciso, avvinghiato alla tela con uncini invisibili. Sì, è vero, forse il calore mi arriva da fuori, da “casa tua”. Ma anche dalla mia. Perché tu non percepisci il mio mondo, ma io conosco il tuo? Giusto. Perché io sono te. Certo, una parte molto ristretta. Non so, forse lo immagini, ma devi sapere che essere ridotto ad uno schizzo in mezzo oceani di colore ti costringe ad essere, come dire, essenziale. A fare tuo il concetto di “sostanza piuttosto che forma”. Sì, sono una parte di te talmente ridotta al non - osso (tanto, a chi serve uno scheletro per tenersi in piedi?) che trova interessante notare con quanta velocità quasi distratta mi hai lasciato cadere nel mezzo del tuo sogno, senza nemmeno premurarti di darmi un genere, figuriamoci un nome. È buffo perché sono un uomo, come te, e per questo neanche mi vedi. E quello senza occhi sono io. Una cosa potevi disturbarti a farmi avere: la parola. Perché ti vedo, quindi qualcosa in me funziona, ma non riesco a rivolgerti neanche una domanda, un dubbio, niente. Direi che questo ti fa comodo, ma così non c’è gusto, non posso nemmeno aiutarti. Mi metti qui, in faccia a tutte le sagome che mi passeranno davanti commentando e trovando il senso alla tua arte, e non mi permetti nemmeno di dirti quel che sono riuscito a capire da questa finestra opaca che è tutto quel che mi hai dato e avrò sempre. Quello che, invece, secondo me vorresti proprio sentire. È proprio questo il punto, vero? Non guarderete mai me, né tu, né tutti gli altri che verranno. Perché siete umani e l’umanità non vi interessa, anzi, un po’ vi fate paura da soli, un po’ vi vedete piccoli e insignificanti. Ed è così che mi hai fatto, sperduto nell’esplosione della natura che sembra ti sia uscita dal cuore a forza per espandersi meglio. È così che sei tu, così che vi vedete voi, uomini che pure potete vantare tutto ciò che io non avrò mai: un corpo, un cuore, labbra capaci di sorridere e parlare, lacrime da poter versare. Siete voi la macchietta, lo schizzo sperduto e poco interessante nell’immensità della natura da cui vi sentite abbagliati e sovrastati e che un po’ amate, venerandola, un po’ non avete mai perdonato per quanto vi fa sentire piccoli e inutili come la peggiore delle matrigne. Voi che dovreste provare quello che io sono perché tutto vi appaia chiaro, lampante. Ma no, in effetti non mi importa di voi. Tu, tu piuttosto. Tu, Uomo. Tu che hai piazzato il tuo nome in calce a questa distesa di giallo e papaveri eppure non saprei come chiamarti, perché, scusami, al contrario e con il collo bloccato vorrei proprio sapere come faresti. Tu. Che per mostrare al mondo quanto ti senti piccolo e lontano non hai trovato nulla di meglio che crearmi capace di vedere una verità nascosta in tutti i tuoi “umani” tormenti. Lo vedi, il giallo di quest’erba? Lo sento intriso nella mia spalla, parte del mio corpo, e ogni filo d’erba beve la tinta scura che mi hai dato come linfa vitale e, credimi, non ho mai sentito l’erba domandarsi “ma sto bevendo “Uomo” o “Natura”?”. Guardami, Uomo: guarda come la mia materia è la stessa materia della natura in cui sono immerso, guarda come il colore non è che un dettaglio perché non c’è confine, nessun taglio netto ma solo nodi e chimica che unisce e da mille forme crea un individuo solo. Così sei tu, con i tuoi dubbi e il tuo sentirti sperduto, piazzato a tradimento nel dipinto di qualcuno che sulla tavolozza aveva colori un po’ più solidi da usare. Sì, dovresti proprio provarci, a vivere un giorno come “me”. Perché il bello di questo mio mondo è che l’Arte è magia. All’uomo non servono occhi per vedere, né alle piante bocca per poter parlare. Sì, lo so, il mio destino è già scritto. Presto il colore finirà di asciugarsi e mi ritroverò appeso ad una delle tue pareti insieme a tutti gli altri, esposto all’esame di quegli uomini che chiami “collezionisti” che, prima o poi, mi porteranno via. Che lodandoti parleranno di fiori, cieli e natura, non certo della mia piccolezza. Ma tornerò, lo sai. Mi dipingi sempre, alla fine. Mi guardi, tuo malgrado, anche se per lo più lo so che non mi vedi. Sei proprio umano, a volte. Ma non temere. Un giorno lo troverò, un modo per avere la parola. Un giorno, lo giuro. Tu mi ascolterai. "

(Cinzia Mattei)